Questa settimana mi trovavo a Londra e ieri sera sono andato a vedere un musical che inseguivo da tempo: The Book of Mormon. Avevo già provato a vederlo a New York ma era praticamente sold out e anche a Londra rischiavo di rimanere a bocca asciutta. Per fortuna alcuni colleghi di lavoro mi hanno recuperato un posto in quarta fila centrale e non me lo sono certo fatto scappare.
The Book of Mormon è stato scritto dai creatori di South Park e porta con se lo stile irriverente del cartone. Il musical racconta di un ragazzo mormone – Kevin Price – e della sua missione di evangelizzazione. Quando i giovani mormoni hanno 19 anni vengono mandati in una missione di due anni in qualche paese del mondo. Oltre alla destinazione ad ognuno viene affiancato un compagno di viaggio col quale condividere tutta l’esperienza.
Kevin è il giovane mormone perfetto, il migliore del suo gruppo e ha grandi aspettative dalla sua missione. Le cose prendono una piega strana prima quando come compagno di viaggio viene scelto Arnold Cunningham – il peggiore del corso – e poi quando viene annunciata la loro meta: l’Uganda.
Arrivati a destinazione si trovano ad affrontare un paese colpito dalla carestia e dall’AIDS col solo aiuto del gruppo di mormoni già presenti in loco che sono – come dire – un po’ strani. Ovviamente questa missione si trasforma in un viaggio alla scoperta dei propri desideri ma soprattutto delle proprie motivazioni.
Detta così sembra il tipico musical del ragazzo che diventa adulto, con qualche elemento del Re Leone e una spruzzata di buonismo e invece quello che viene presentato allo spettatore è molto di più. Per prima cosa c’é una critica intelligente dei meccanismi con cui funzionano le religioni e poco conta che si parli di mormoni. Si parla inoltre di temi seri come la guerriglia, la circoncisione femminile e in generale la ricerca della speranza in un continente martoriato come l’Africa.
Questi temi vengono trattati senza retorica, o meglio la retorica viene presa in giro e quello che resta è il cuore del problema, vivido e senza fronzoli. Non fraintendetemi, non è il tipico spettacolo dove si ride per poi fermarsi a ragionare e commuoversi. E’ un musical dove si ride (tanto) dei costrutti inutili e si osserva quello che resta con lucidità e senza sensazionalismo. Questo è quello che lo rende così speciale e che mi ha colpito dall’inizio alla fine.
Alcuni passaggi sono poi esilaranti come quando i mormoni della missione in Uganda spiegano ai due nuovi arrivati il loro modo per affrontare i problemi, ovvero… ignorarli! Prendono i problemi, li spengono come se avessero un interruttore e si convincono che non esistano più. Uno dei mormoni ha spento i pensieri omosessuali che aveva ma – ovviamente – non funziona. Durante lo spettacolo lo si vede sfinocchiare ed è chiaramente attratto da Kevin Price.
Si arriva al punto in cui appare in un incubo del protagonista vestito da diavolessa in un boa di struzzo rosso e tacchi a spillo. La propria natura non può essere schiacciata, è come l’acqua: più si prova a comprimerla più troverà dei buchi dai quali spruzzare fuori.
Un altro momento dove non riuscivo più a smettere di ridere è la canzone che auto celebra i risultati di questo gruppo scalcagnato di mormoni in Uganda. Grazie ad una serie di situazioni riescono a battezzare un intero villaggio e viene annunciata una visita dei loro superiori per dargli una medaglia. Pieni di orgoglio e tronfi di successo si mettono a cantare una canzone dal titolo I Am Africa.
Con un atteggiamento spocchioso da colonizzatori gli sembra di aver capito tutto del paese tanto da sentirsi come il battito del cuore dell’Africa o il vento che muove l’erba nelle pianure del Serengeti. La frase finale della canzone è geniale, dice: Africans are African, But we are Africa!
Senza rivelare niente posso dire che alla fine tutto si conclude in modo curioso ma positivo. Viene scelto di seguire l’unico modo in cui la religione possa davvero avere un impatto positivo sulle vite reali della gente. Questa via è prendere gli insegnamenti della religione come metafore e non come realtà assolute. Diciamo che nel caso specifico un po’ di modifiche ad hoc hanno aiutato il percorso!
Uno degli autori del musical ha definito lo spettacolo come “la lettera d’amore che un ateo può mandare ad una religione”. Bisogna vedere lo spettacolo per capire la citazione ma è veramente molto azzeccata.
Come sempre è difficile trovare video ad alta qualità dei musical a teatro ma ecco due filmati provenienti direttamente dai Tony Awards dove nel 2011 il musical concorreva per diversi premi. Il primo è la prima canzone del musical, mentre il secondo è una delle canzone del protagonista. La seconda va ascoltata molto bene perché ha un testo veramente geniale!
Passiamo a qualche altro aspetto, anche più frivolo. Come in tutti i musical gli attori tendono ad essere carini e in forma. L’attuale protagonista londinese è piuttosto piacente anche se non sconvolge. Si chiama Gavin Creel e riesce molto bene a rendere il personaggio di Kevin Price risultando credibile in tutti i suoi aspetti. Non siamo ai livelli di bonaggine di Mamma Mia! ma un po’ di soddisfazione ce la dà anche Gavin che tra l’altro è apertamente gay e partecipa a molte iniziative di sensibilizzazione a temi LGBT.
Detto questo concludo consigliando a tutti di vedere questo spettacolo. Va in scena sia a New York che a Londra e temo che non ci sarà occasione di vederlo dalle nostre parti. E’ necessario conoscere bene l’inglese per cogliere il testo delle canzoni e dei dialoghi ma ci si può sempre prepare leggendo il libretto! Buon divertimento!!!